giovedì 23 aprile 2015

GUIDA GIANNICA DEFINITVA ALLA CORSA ovvero COME CORRERE 10 KM E SENTIRSI POTENTI

Quando lo dico ad alta voce ancora mi sembra che abbia un suono strano e molto poco familiare, eppure è così: IO CORRO.
Dopo un anno esatto, dopo tutte quelle mattine in cui la sveglia ha suonato presto, dopo i chilometri e i minuti, che sono diventati mezzore e poi sono diventati ore, e io non sono morta ma sono ancora qua a raccontarlo, adesso fatemelo dire : LA GIANNI CORRE, e la boria sgorga da tutti i pori mentre ve lo scrive in capital letters. Diavolo sì! L'ho fatto davvero, l'ho fatto seriamente, io! La donna dal divano facile, la regina dell'incostanza, la ragazza con la capacità polmonare di una triglia!

Un risultato raggiunto è sempre un buon motivo per bullarsi, ma la corsa ha qualcosa in più: la corsa ti fa sentire maledettamente una figa perché dio mio, puntare la sveglia un'ora e mezza prima e uscire nelle brume invernali per trottare cinque chilometri intorno al parco, qualcosa di eroico ce l'ha per forza.

Un sacco di gente mi chiede come abbia fatto ad iniziare. La cosa che stupisce me, invece, e che io abbia perseverato. Iniziare è facile, basta averci il grillo per la testa: c'è il primo entusiasmo, il bagaglio di buona volontà, i propositi dell'anno nuovo da mantenere, tutte quelle simpatiche cosine che vanno in frantumi dopo le prime tre-quattro uscite. Andare avanti, quando la prima ondata di novità passa, quando tutto - perché tutto - diventa una routine - questo mi fa sentire in diritto di tirarmela un sacco, e ve lo dice una che di cose iniziate e mai finite ne ha accumulate tante (un minuto di silenzio per il mio basso elettrico, il mio ballerino di latino americano, la mia vocazione da attrice e la macchina da cucire). Ve l'ho sempre detto che sono incostante.

Il perché un anno fa abbia deciso di iniziare a correre mi è ad oggi fumoso. E' stata una decisione ponderata oppure mi sono svegliata una mattina e alla Forrest Gump mi sono sentita in vena di fare una corsetta? Non lo so, quello che mi ricordo è che la decisione si è consolidata per un mero ragionamento estetico, del tipo: ho un grosso naso e denti storti, di certo un culo sodo può aiutare. Dopo un anno vi dico: ho il culo sodo? No, ma un'autostima durissima. Faccio inoltre la cacca quasi tutti i giorni, cosa non proprio poetica da dichiarare in un post ma che insomma, rappresenta un parametro molto significativo per la mia personale valutazione del buon livello di qualità della mia vita.

In questo clima da grossi segoni a due mani alla mia autostima, non ho la presunzione di darvi consigli di nessun genere, ma un paio di cose per come sono successe a me ve le racconto, dai.


1. Io e Il Pelliccia che non si molla un cazzo.
2. Nessuna situazione è troppo scomoda per prendersi un selfie.
3. Io, dieci km dopo.
























Per esempio, mi ricordo che all'inizio il cruccio che mi assillava era come si fa a correre? Non date retta ai saccentoni che in tono di sfottò vi dicono che basta infilarsi un paio di pantaloncini e uscire di casa, il cazzo. Se siete come me - leggi, flaccidi e antisportivi - avete una percezione precisa delle - basse - potenzialità del vostro corpo e avete paura. Fate bene, tenete conto dei vostri timori perché uscire dal cortile di casa a bomba e trovarsi schiantati dopo dieci minuti fa malone sia al corpo che alla mente, e poi ci credo che mollate subito. Mai come nella corsa è vero il motto chi va piano va sano e va lontano. Io mi sono affidata allo schemino di Runner's World e lo consiglio a tutti: certo, alla prima uscita mi sentivo una perfetta idiota con il mio corri un minuto - cammina un minuto - corri un minuto e così via ad libitum, ma sai che c'è? Chissenefrega. La corsa è lo sport più democratico del mondo: avete presente quell'atmosfera testosteronica da palestra, che se non sollevi abbastanza e non fletti per bene il bicipite davanti allo specchio sei fuori? Ecco, nella corsa mai. Non hai mai mai mai la sensazione che qualcuno ti stia giudicando: né il maratoneta con le gambe che sembrano un tronco di baobab né il vecchietto che si tiene in forma, né la ragazza cicciottella, né quello figo che corre col cane. Ognuno corre per sé e nessuno ti guarda, al massimo ci si scambia un saluto quando ci si incrocia, perciò scialla: concentrati sui tuoi schemi, non fare di più, non hai niente da dimostrare se non a te stesso, e questa è una sensazione se vuoi rilassante.

Ora, la cosa più difficile, specialmente all'inizio, era tenere il ritmo: decidi di andare a correre tre volte a settimana, perfetto, devi farlo. E per farlo devi sconfiggere il nemico numero uno, cioè la pigrizia, quella che ti sussurra di stare a letto un altro po', che ci puoi sempre andare domani. Per non ascoltarla, io ho adottato questa tecnica: non lasciare il tempo al cervello di riconnettersi. Come suonava la sveglia, io schizzavo su come un pupazzo con la carica a molla, senza pensare, senza avere il tempo di dirmi ma cosa cazzo stai facendo non vedi che fa freddo che voglia c'hai. Il segreto è questo: farsi trovare già vestita quando il cervello si riconnette. E i vestiti da runner - dopo ne parliamo - sono una cosa troppo figa, perciò una volta che ti sei specchiata con quelli non ti va proprio di toglierteli, e allora a quel punto che ti rimane da fare? Uscire e correre, è l'unica occasione per tenerli su ancora una mezzoretta!

Le cose si semplificano poi, andando avanti, perché entri in una sorta di circolo virtuoso: ad ogni uscita sposti l'asticella un po' più in alto, raggiungi un traguardo che verosimilmente non pensavi raggiungibile e ti gasi: le endorfine fanno molto in questo senso, e la mattina dopo hai più voglia di tirare insieme le povere ossa e portarle al parco.

Anche questo fatto della mattina ha portato un po' di scalpore nella ristretta cerchia delle mie conoscenze: io non sono assolutamente una morning person, ma preferisco correre la mattina piuttosto che la sera per una serie cospicua di ragioni. Intanto la mattina fa più fresco, e da marzo a ottobre questo è una fattore di importanza fondamentale per la mia pressione. Poi c'è meno gente, in generale, meno runners ma anche meno macchine-pedoni-bici-bambini e altro, puoi bruciare qualche semaforo in più e non rischi la vita. Non so se è una cosa che vale solo per me, ma quando mi capita di correre la sera ho sempre dolori intercostali, o di milza, o di fegato, o non lo so che cosa, che mi fanno penare. Infine, lo so che sembra ridondante ma vi giuro che è vero,correre la mattina ti fa iniziare la giornata con un'energia diversa: esco a correre presto, e all'ora in cui normalmente mi suonerebbe la sveglia sono già tornata e docciata, sono super sveglia, ho una fame del boia e in generale sono più pronta ad affrontare la giornata.

Ma dicevamo: outfit. Lo shopping da runner è quanto di più bello e godereccio possa capitare ad una shopaholic (se ancora questo termine è in auge), perché è tendenzialmente poco dispendioso, guzzo di completini striminziti che ti piallano la cellulite e in colori flash che altrimenti non oseresti mai. Dio benedica Oysho e la sua linea fitness, ma soprattutto Decathlon che quando sei giù di corda per soli 4.90 € ti fa passare la depressione con una tshirt in tessuto tecnico arancio evidenziatore.
Requisito fondamentale per gli abiti da corsa per me è che siano inciucciati: niente bragoni, niente magliettone svolazzanti, quando corro a me da fastidio tutto, perciò quanto più sono aderenti tipo seconda pelle e tanto più mi piacciono. I leggings risolvono la questione almeno tre stagioni l'anno: io ormai sono in completo trip e li ho leopardati, con inserti rosa, lunghi, al ginocchio, e chi più ne ha più ne metta, ma la verità è che gli sfigatissimi leggings di Tezenis almeno all'inizio possono bastare. Tendenzialmente, io son di quelle che quando corre patisce abbastanza il caldo, perciò anche d'inverno non mi bardo troppo, ma giacchino antivento, guanti in microfibra e fascia per non perdere le orecchie sono orpelli fondamentali se si vuole tornare a casa sani e salvi e con tutte le protuberanze ancora attaccate anche nei gelidi mattini di dicembre.

Le scarpe meritano un capitolo a parte: si dice che all'inizio non sia necessario dotarsi di scarpe particolarmente fighe, basta che abbiano la suola un po' sostanziosa, un po' molleggiata e insomma, non siano le Stan Smith o le Superga per intenderci. E' abbastanza vero: ho corso i primi sei mesi con delle scarpe simil-running prese da Decathlon e pagate una cifra irrisoria e non sono morta. In compenso, ho quasi perso un unghia del piede che si è completamente annerita e poi piano piano staccata a pezzi. Al mio compleanno, il Pelliccia mi ha portato in un posto figo in cui ti fanno la prova del tapis roulant per vedere il tipo di appoggio che hai (neutro, nel mio caso) e ti consigliano le scarpe giuste. Adesso corro con un paio di Brooks che intanto sono viola e azzurre perciò fighissime, e in secondo luogo non ti sembra nemmeno di averle ai piedi.

1. Imbarazzanti fasce paraorecchi.
2. Avete detto scarpe?
3. Io che corro in luoghi ameni di Milano.

Altra spinosa questione del running: la musica. Io non sono musicofila per niente, ma correre senza musica non ce la farei mai e poi mai. Perché mi viene subito da ascoltare il mio respiro, e poi mi sembra di respirare male, e allora mi sforzo di respirare col naso, e perdo il ritmo e va tutto a catafascio. Non so perché si è tutti convinti (o forse lo ero solo io, boh) che il modo giusto di respirare sia inspirando dal naso ed espirando dalla bocca. Sorpresa! Non esiste un modo giusto per respirare, basta che sia naturale e non forzato. Io respiro quasi solamente con la bocca, con buona pace di quelli che dicono che correre a Milano ti sputtana i polmoni. Sarà meglio non fare un cazzo allora.

Dicevamo, musica. La musica mi tiene compagnia, perché altrimenti correre sarebbe una bella palla. Per quanto io sia logorroica con me stessa e perfettamente in grado di imbastire fitte conversazioni fittizie nella mia mente, trovare qualcosa su cui arrovellarsi per un'ora di fila non è sempre facile. A volte è più bello staccare il cervello, alla fine correre serve anche a quello. 
Trovare il giusto device per ascoltar musica non è stato semplice. All'inizio usavo l'ipod con delle cuffiette reperite chissà dove che non avevano nessuna intenzione di rimanere ancorate alle mie orecchie. Un supplizio. Dopodiché due eventi sono occorsi a mio vantaggio: l'ipod si è suicidato, rifiutandosi di accendersi più, e le mie amiche mi hanno regalato un prodigioso apparecchio MP3 della Sony che fa tutto da solo, non ha fili, te lo metti come un paio di occhiali, ma al contrario, ed è waterproof. Bomba. La mia playlist comprende un opinabile mix di rock commerciale e canzonette da spiaggia che vi risparmio.
Poi a un certo punto sono andata in botta con Spotify. Non cercate le playlist "running", "cardio", "motivational", fanno tutte cagare, sono mosce come non mai! Invece mi sto letteralmente strippando con la dance anni 90-2000. Lo so, lo so. Ma sto riscoprendo pezzi come Il gioco dell'amore, Summer is crazy, La vie c'est fantastique. E insomma, a modo mio mi diverto.

A questo punto, se vi ho convinti non lo so. Spero di sì perché penso che ce li meritiamo tutti cinque minuti di sentimento di onnipotenza tre volte alla settimana (o di più, o di meno, vedete voi). Rimango serena comunque del fatto che, almeno, un solida certezza da questo post la potete trarre: la Gianni a quanto pare ha una passione segreta per i capi d'abbigliamento color Big Babol, solo che si vergognava a dirvelo.

venerdì 17 aprile 2015

LA GIANNI E' VOLUBILE MA POI SI SENTE MEGLIO

Il Pelliccia mi ammicca sornione quando annuncio ai quattro venti di non volere mai nella vita bambini. Dice che un giorno tornerò a casa dichiarando di voler un figlio, e alle reazioni perplesse di chi mi conosce sgranerò gli occhi spergiurando di non aver mai pensato niente di diverso.

Un po' come quando mi facevano schifo gli animali e poi una sera lui è tornato a casa dal lavoro e avevamo un gatto.

Insomma, non sono una persona di cui potersi fidare. Se ad esempio vi dico che la collezione primaverile di Zara mi fa schifo, poi non è detto che non mi ritrovi per caso un lunedì mattina in Centrale e decida di dar sfogo alle mie frustrazioni.
Se poi vi dico che il Vichy ha rotto, non è mica detto che in quello stesso Zara di Stazione Centrale non decida di provare e poi comprare i pantaloni della vita, in un adorabile vichy tenerino bianco e blu.

Mi sarebbe piaciuto postarvi un selfie ma: uno, chi vi scrive al momento è in pigiama e senza nessuna voglia di schiodare il culo dal divano due, il mio specchio da selfie giace ancora abbandonato per gli effetti post trasloco. Vorrei molto avere una Anna che mi spari foto su sfondi bucolici come quella simpatica canaglia del Gianni ma non ho né quella né saprei dove reperire sfondi bucolici. Ergo, ve li descrivo e anzi no, vi posto anche la foto dal sito di Zara ma di un colore diverso perché boh, mi ci sono persa e bianchi e blu mica li ho trovati sai.

TADAAAAAAN!!

Cos'hanno di speciale questi pantaloni tanto da assurgere all'ambito ruolo di pantaloni della vita? Tutto.

Innanzi tutto, il prezzo: 29,90 € e passa la paura.
Poi: hanno la vita altina ma non troppo, dettaglio fondamentale per una fan della vita ascellare come me, che però non ha accumulato ancora abbastanza pelo sullo stomaco da sfoggiare culotte de cheval spavalda come Sandy Olsson sulla ruota panoramica.
Sono senza tasche, nessuna tasca, e con zip laterale, sul fianco, tutte informazioni che sulla carta mi terrorizzerebbero e invece ragazzi... Non ho mai mai mai avuto un culo più bello di così. Mai, manco con i Perfect Shape di Fornarina. Manco con leggings in microfibra inciucciatissimi che compro da Oysho per far la figa a correre in parco Sempione.
In più, fanno le gambe magre. Sarà merito del vichy? Non ne ho idea ma guardate la modella sopra: ecco le mie gambe sono così, e tanto basta per non voler approfondire oltre la questione.
Il tessuto è strano, un ovvio poliestere misto viscosa misto derivato del domopack, probabilmente, ma un po' goffrato, un po' rigidino, che a me non piacciono quei pantaloni mollacciosi che dopo due volte che li indossi si slabbrano da tutte le parti. Ecco no, questi fanno un po' effetto armatura, contengono, ma senza comprimere.

Last but not least, come li ho provati in camerino la mia testa era già partita verso lidi francesi lontani nel tempo e nello spazio in cui passeggiavo nei mie pantaloni con queste scarpe.


Le scarpe della penitenza. Croce e delizia dei miei duroni.

Incredibile l'effetto di onnipotenza che ne è scaturito. Sentirsi figa è la sensazione più potente dell'universo. Per i circa venti minuti di tragitto da casa al lavoro ho guardato tutti da dietro le mie lenti da Willy Wonka con ispirata alterigia, bullandomi dell'autorevolezza sprigionata dai miei pantaloni: potevo far finta di essere adulta, una di quelle che ci stanno a proprio agio davvero sui kitten heels, con una carriera e un lavoro very, e un paio di pantaloni in vichy di Zara a dimostrarlo. 

Insomma a volte stai depressa per dei mesi, e poi. Poi sbarchi da mamma Zara e ti rendi conto che cinque minuti di gioia non li si può negare proprio a nessuno, neanche a se stessi. E che dev'esserci un disegno dietro tutto ciò se al mondo capitano miracoli come avere un culo bellissimo dentro a dei pantaloni a quadretti. Un disegno imperscrutabile ma dai. Almeno c'è.

P.S. Volevo rendervi partecipi del fatto che nella mia ubriacatura di belle sensazioni ho acquistato anche questa:


A me sembra figa. Quando capirò cosa cazzo farmene ci sarà di che ridere, garantito.



lunedì 13 aprile 2015

SILVER HAIR: Sì, NO, FORSE?

Se non mi ritrovassi a lavorare a contatto con un "certo" pubblico, avrei già all'attivo

capelli argentati
side cut
tatuaggi da muratore su entrambe le braccia.

(Mamma, ringrazia il destino che ha condotto la tua figliola pazzerella a vender borze ai papponi russi).

Nella maleodorante pozza di vomito dei trend di stagione che ci stanno cercando di rifilare in questa pazza pazza primavera due zero uno cinque, tra cui annoveriamo un deprecabile ritorno agli anni settanta, una tensione autolesionista verso lo scamosciato finto come le mie lenti a contatto azzurre e delle Stan Smith fluo che gesù aiutaci, la cosa che mi fa sperare nel ritorno alla ragionevolezza dell'umanità sono i silver hair.




 Li voglio. Li voglio. Li temo tantissimo. Mille dubbi assalgono le fragili difese della mia mente: sembrerò Paola Marella? Accentuerà i già visibili segni di vecchiaia sul mio stanco volto? Che filtri hanno usato queste tizie? Mi giurate che il colore sarà davvero così e che non sembrerò la pazza che dà da mangiare ai piccioni al parco?

martedì 7 aprile 2015

FAR CAGARE IN PRIMAVERA

Domanda post-pasquale: ma com'è che mi è presa questa forma grave di ignavico scazzo nel vestire, adesso?

Io sto nella fascia delle bruttine che combattono.

Cioè, non sono mai stata né mai sarò figa, e non ci sono corsette, creme o trattamenti alla cheratina che tengano: ho la corporatura che alle medie nelle lezioni di inglese ti facevano descrivere come medium build, né grassa, né magra. Vestita sembro magra, ma è più che altro un effetto visivo, perché ho le ossa del viso e delle spalle e anche i tendini del collo molto sporgenti. Quindi la parte più visibile di me è incavata, ma cosce e culo sono un'altra faccenda, una faccenda molto altra per essere sinceri. Da nuda non mi direi grassa, ma piuttosto burrosa, e soprattutto poco compatta. Con un incipit di cellulite preoccupante e un culino quadro, che mi si appoggia sulle cosce e quando mi abbronzo (quando mi abbronzo?) mi rimangono le lunette bianche. Uno di quei culi a quattro chiappe, su cui il segno dello slip sarà evidente sempre e per sempre, e non c'è assenza di cucitura che ci salvi, caro Intimissimi dei miei stivali.
In faccia, ho una fisionomia rapace, nel senso che di profilo ricordo un uccello: ho il collo lungo dell'airone cenerino e il naso a becco dei corvacci di campagna.
Ho le spalle spioventi, le unghie asimmetriche, duroni inestirpabili ai piedi, capelli demmerda e poi basta, perché va bene l'autoanalisi, ma così manca poco che vi saluto con la mano e mi butto dal ponte di testa.

Essendo stata snobbata da una madre natura parca di doni, a mia difesa va da dire che mi ci impegno. Non tanto, perché come in tutte le cose sono pigra e non c'ho sbatti, ma un po' sì. 
Tipo compro dei vestiti che mi stanno bene anche se al Pelliccia fanno cagare, combatto una guerra decennale contro dei capelli sfranti e non esco mai di casa struccata. Mai. Solo se devo andare in piscina, e comunque lo faccio controvoglia. 
Non che si tratti di fissazione o banale vanteria, è una semplice equazione di benessere psicofisico: se già sei un po' cessa, magari (magari, dico, eh) pure un po' di cattivo umore ed esci di casa sfatta, amica, te la sei cercata. Vestirsi carine, truccarsi e sentirsi un po' più belle fa bene all'umore, si ha più voglia di fare le cose e in generale la vita sembra meno una merda se la affronti con la giusta dose di mascara.

Vabbè, tutto sto spiegone e ora ho perso il filo. Quello che volevo raccontarvi è che, quale disgrazia, di sti giorni non ho una beata voglia di mettermi bene.
Mi sono resa conto del fondo che stavo toccando quando l'altro giorno, per andare a prendere un gelato, sono uscita di casa così agghindata:
pantaloni in maglina grigia comprati da Tezenis nel lontano 2012 a solo scopo casalingo;
felpa alla Dirty Dancing dei poveri con tanto di spallina del reggiseno in vista;
slipon pelose senza calze;
occhiali da vista;
coda.

Non ho giustificazione di fronte a tale sciatteria, ma provo a trovarle lo stesso. Mi sono fatta l'esamone di coscienza, e credo che la causa del mio decadimento improvviso sia da cercare tra una di queste quattro opzioni:
  1. Lo stato di irrisolutezza in cui mi hanno gettata le prime avvisaglie di bella stagione mi lascia confusa e spaesata di fronte alla vastità delle opzioni che l'armadio mi fornisce.
  2. La regressione intellettiva e morale di cui mi sento vittima da molti mesi a questa parte si ripercuote sul mio livello estetico, condannandomi ad un aspetto esteriore da bruto delle montagne, perfettamente in sincronia con la condizione del mio Io.
  3. Forse, al contrario, crescendo sto diventando più matura e pertanto meno ossessionata dall'importanza del personal branding (risate).
  4. Non ho un cazzo da mettermi.
Secondo me è la quattro. 
Maledetta povertà.

Una cosa la vorrei ricordare a tutti però, e per prima a me: io i culotte pants li acquistai nel 2012 (insieme alla maglina grigia di Tezenis, per intenderci), e tutti voi ci avete goduto un sacco a sbattermi in faccia quanto facevano cagare. Questo dovrebbe insegnare qualcosa. A me, a voi, a tutti.

giovedì 2 aprile 2015

HO VENTINOVE ANNI, SEI MESI E UN'APPARECCHIO

Un apparecchio sinistramente molto molto simile a quello che avevo in quarta elementare.

Solo che adesso non ho dieci anni, ne ho ventinove, sei mesi e un diabolico, orrido apparecchio che in due ore mi ha già abraso la mucosa di una guancia e che mi provoca scialorrea. Sbavo. Sbavo come un'ottuagenaria col bavaglino in casa di riposo e non so dire le esse. Ho questo ferretto che mi ostacola la lingua, me la comprime, impedisce l'articolazione alveolare della consonante che sta in così tante parole di questa nostra meravigliosa lingua che è l'italiano, parole che uso continuamente, come sì, perché sono un tipo assertivo, come sono, perché sono un tipo egocentrico e come suca, perché sono un tipo sboccato e in questo momento molto molto affranto.

I miei denti hanno bisogno di essere riassestati. Hanno bisogno di un atto di forza, perché stanno messi malaccio, e perciò ho scelto, in coscienza e nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, di autoinfliggermi la ferraglia per otto - otto - mesi. Otto mesi di sole, di sonno, di spazzatura. Di scusa, di scuola, di squali. Di storie, di spazi e -dio mio- otto mesi di sassi, sassofoni e sessuologi, che ce n'è tanti, in otto mesi, di sessuologi, ma soprattutto di sassi, vuoi non avere a che fare con mucchi, con montagne di sassi in otto mesi?

Io sono qui, mando messaggi vocali al Pelliccia, alle mie amiche, solo per ascoltarmi, per sentire il suono di tutte queste esse e per spaventarmi, perché provo un piacere perverso a sentirmi un difetto addosso, a non riuscire ad arrotondare, scivolare la lingua sulle gengive, senza sentire i contorni dei miei denti storti e forti e ancorati e grossi.

Sono qui, parlo ad alta voce davanti alla dottoressa Kepner per abituare la mia bocca ai suoi nuovi spazi, tocco le molle, mi fanno male ma non posso resistere, sono orribili e sanno di ferro, sono lisce, aguzze, la mia bocca si muove innaturale intorno a loro.

E nel frattempo, non posso credere di averlo fatto. 

Sono euforica, sono felice, sono terrorizzata, dal dolore, dalla esse, dai miei clienti, il mio capo, la gente che conosco, la gente che non conosco. Dalle esse dalle esse dalle esse. 
Dio mio, quante parole ci sono che hanno dentro la esse.

Io non voglio che si senta. Non voglio - che - si veda.

Oppure no, forse me ne frego. Non ho ancora deciso, ma potrebbe anche essere che. Sì, potrebbe proprio anche essere che.
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